Il viale di Rignano
Ma come ha fatto Renzi a buttare via in pochi anni un simile capitale politico, sociale umano? Domande e qualche risposta
Nel 2009, un trentaquattrenne di nome Matteo Renzi diventava sindaco di Firenze. Trentaquattro anni, come Mario Fabiani, primo sindaco fiorentino (comunista) del dopoguerra.
Quell’elezione era stata preceduta da combattute e seguitissime primarie alle quali parteciparono, fra gli altri, Lapo Pistelli e Michele Ventura, il primo sostenuto seppur non esplicitamente dalla segreteria nazionale, il secondo inviato da Roma in quota D’Alema per fermare il ragazzo di Rignano sull’Arno.
Fu una scommessa, e Renzi la vinse. Contro un partito che lo avversava e lo considerava un marziano.
Uno schema che Renzi si è portato appresso per anni, anche quando è diventato - per due volte - segretario del Pd. Avversato e considerato un marziano.
Questo non gli ha impedito di raggiungere alcuni obiettivi. È stato presidente del Consiglio, leader del Pd, ha portato il Pd al 40,8 per cento alle elezioni europee. Per oltre un quinquennio è stato centrale nel dibattito pubblico. Oltre dieci anni dopo le elezioni comunali di Firenze, nel 2020, Matteo Renzi fa il senatore di un partitino che alle elezioni regionali, in Toscana, a casa sua, ha preso il 4,48 per cento (e peraltro si presentava insieme a +Europa).
A Firenze, la città di cui è stato sindaco, ha preso il 6,67 per cento.
In pochi anni, l’ex sindaco di Firenze ha disperso un patrimonio politico, sociale, persino umano. Non si può parlare di “start up” perché non sono outsider quelli che hanno aperto Italia viva. Non è nato in un garage, come da cliché dell’innovazione americana.
In questi mesi mi sono chiesto spesso come sia potuto accadere.
Ho provato a darmi una risposta.
L’inizio della fine della parabola non si è verificato il 4 dicembre 2016, quando Renzi perse il referendum costituzionale che aveva caricato di senso politico, facendolo diventare un referendum sulla sua persona. Quando disse: se perdo, me ne vado (e non se ne andò).
No, sono state le elezioni europee del 2014, quando Renzi prese il 40,8 per cento con il Pd. A quel punto l’ex rottamatore aveva a disposizione alcune strade, tra cui investire in un rapporto continuo e duraturo con l’elettorato moderato e di centrodestra che l’aveva premiato per la sua trasversalità, come già era accaduto alle primarie fiorentine del 2009, quando Renzi vinse grazie anche - così dicevano i flussi dei voti - all’elettorato di centrodestra. Ma alle regionali del 2015 questa connessione sentimentale con un pezzo di paese non c’era già più.
In questi anni ho parlato a lungo con persone che hanno sostenuto Renzi fin dall’inizio. Persone intellettualmente oneste e sinceramente convinte che Renzi potesse rappresentare la svolta per un paese ingessato e gerontocratico. A tutti loro, che oggi sono profondamente delusi dall’ex presidente del Consiglio, Renzi pareva un’ultima speranza. Ci avevano creduto davvero insomma.
L’aspetto più interessante della parabola renziana è la velocità con cui l’ex sindaco di Firenze si è alienato le simpatie di quelli che gli volevano politicamente bene. Spesso i suoi tifosi di quart’ordine che girano sui social insistono sull’odio gratuito che ci sarebbe nei confronti dello statista di Rignano. Una parte del centrosinistra lo ha sempre avversato, non ha mai creduto in lui, ma non è questo il punto. Tutti hanno dei nemici.
Il punto è che Renzi ha deluso le aspettative di quelli che politicamente avevano creduto alla sua rottamazione, al suo assalto al cielo. Come pochi altri nella storia politica italiana, era davvero entrato in sintonia con un pezzo del paese. Per questo, poi, a un certo punto anche i più entusiasti sostenitori gli hanno voltato le spalle. Ma non erano loro, i traditori. Semmai è stato lui a tradire premesse e promesse. Di questo lui e i suoi ultrà - fin troppo accesi su Internet anche per essere ultrà - dovrebbero tenere conto. Non si dovrebbero preoccupare di quelli a cui stavano sulle scatole fin dall’inizio ma di quelli che via via hanno perduto. Persone in buona fede che andavano alla Leopolda, che un tempo era una contro manifestazione e che poi è diventata solo una manifestazione; persone che oggi hanno preso altre strade, qualcuno ritirandosi anche a vita privata.
Durante la campagna elettorale per le elezioni regionali ho letto un sondaggio sulla Toscana che mi ha molto colpito. Dalla rilevazione di Quorum (realizzata tra il 28 agosto e il 4 settembre su 2.510 casi con metodologia mista CATI e CAWI), emergeva una questione importante riguardante la figura politica di Renzi. Solo il 14,4 per cento degli intervistati ha detto di avere “molta o abbastanza fiducia in Matteo Renzi”, mentre l’80,5 ha detto di averne “poca o nessuna fiducia” nel senatore fiorentino. Pochi giorni dopo ci sono state le elezioni e il risultato lo sapete.
Tutti i leader hanno persone intorno che danno consigli. Alcuni anche non richiesti. I migliori si circondano di persone migliori, che sanno dire anche di “no”. I mediocri aspirano ad avere persone mediocri per non sentirsi inferiori. Per un periodo, Renzi aveva con sé alcune menti brillanti, penso a Giuliano da Empoli, Cosimo Pacciani. Persone che gli hanno anche detto “no”, merce rara in politica. Ecco, queste persone non ci sono più da anni, è prevalso il compiacimento e l’autocompiacimento.
Renzi, insomma, si è dimostrato il peggior nemico di se stesso.
non ha applicato lombroso: probabilmente non ha mai avuto l'idea morale di dover applicare Lombroso.
Basta guardare chi ha scelto nel PD Siciliano. Da Faraone a Sammartino. Per tanto tempo ho creduto che fosse il suo ruolo da segretario a costringerlo a non fare la tanto promessa rottamazione, ma la verità è che ha cercato di convincere, e quando non ci è riuscito a vincere nel PD stesso. E purtroppo i suoi sono stati peggiori di quelli di prima. Liti su chi c'era da prima o chi aveva più voti. Ha distrutto anche quello che di buono c'era nel PD.