Viaggio al termine della notte di Firenze
Le strade sono vuote, ma le pietre della città parlano. Reportage di Paolo Ermini
Paolo Ermini è stato condirettore del Corriere della Sera. Fondatore e direttore del Corriere Fiorentino per 13 anni.
È stato il mio direttore e grazie a lui sono diventato giornalista professionista. Ha scritto questo bellissimo reportage dalla nostra città, Firenze, ai tempi della pandemia. (d.a.)
Alle 11 di sera Firenze è bellissima. Arte, storia, cielo scuro. E strade vuote. Ma non silenziose, perché le pietre della città parlano. Da secoli. E ora ci ammoniscono sull’apparenza della bellezza che ci avvolge. Chiusi i ristoranti, i bar, i pub. Deserte le piazze della movida. Niente palestre, niente teatri, niente cinema. Ci ha pensato il Coronavirus a ridare ai residenti del centro storico il diritto di riposare. Ma per loro, dopo anni e anni di battaglie e di sconfitte, è come aver vinto la guerra conquistando un deserto.
Di giorno non va troppo meglio. Nel cuore antico di Firenze i negozi sono aperti, ma i clienti si contano con le dita delle due mani. A volte ne basta una. Si sperava che dopo la grande fuga di marzo i turisti cominciassero a tornare. Ma le speranze sono state sepolte dalla seconda ondata del Covid 19, che era attesa, ma i fiorentini – come tutti gli italiani, del resto – avevano sperato di esorcizzarla, prima riempiendo i bagni della Versilia e poi le decine di tavolini imbarcati piazzati dai ristoratori sui marciapiedi di città per gentile concessione del Comune. E ora? Si riparte come in primavera, anzi peggio che in primavera.
Perché nessuno può invocare l’effetto sorpresa, si è sprecata l’occasione di mettere il Covid in gabbia e il morale è sotto i tacchi. C’è la promessa del presidente del Consiglio che queste nuove chiusure serviranno a passare un Natale abbastanza “sereno”, ma pochi ci credono. Anche “Giuseppi”, l’Avvocato del Popolo, non gode più di una fiducia pressoché illimitata. Lui continua ad andare in Tv e a cercare di trasmettere un senso di tranquillità, ma non contano più solo le parole, il fascino dell’uomo nuovo al comando. Adesso parlano i fatti. E i fatti dicono che durante l’estate il governo ha fatto ben meno di quello che avrebbe dovuto fare per arrivare a una ripresa autunnale meno precaria. Anche a Firenze. Invece siamo a calcolare la crescita esponenziale dei contagi, ad ascoltare i nuovi allarmi sulla tenuta delle terapie intensive, a dividerci (ancora!) sull’opportunità di fare il maggior numero possibile di tamponi agli asintomatici (che sono i veicoli più pericolosi del virus perché ignari) ignorando i ripetuti moniti lanciati sul Corriere Fiorentino e a Piazza Pulita dal professor Sergio Romagnani, ex primario di immunologia a Careggi e tuttora autorevolissimo ricercatore a tempo pieno.
La catena degli errori
Sopratutto siamo qui a chiederci perché solo poche scuole abbiano ricominciato a fare i doppi turni (mattina e pomeriggio), come facemmo noi sessantenni negli anni del boom demografico e dopo l’alluvione (che spettacolo le lezioni con il professor Bellini o la professoressa Dolfi nell’altana della sede della vecchia, unica, media Machiavelli davanti a Palazzo Pitti). E infine, ma non per importanza, siamo qui a chiederci perché poco o nulla è stato fatto per evitare gli affollamenti nelle piazze dello sballo e sui mezzi di trasporto, dove per andare a lavorare e a studiare si sono accalcati tutti quelli, giovani e meno giovani, che non hanno potuto o voluto avvalersi di un mezzo privato. Per settimane nessuno si è preoccupato di andare a vedere che cosa succedeva nelle ore di punta dentro la stazione di Santa Maria Novella, a Rifredi o a Campo di Marte, mentre dopo paginate e paginate di denuncia si sono contingentati gli ingressi in piazza Santo Spirito, lasciando nel delirio altre piazze. Non ci può andare solo Conte coi suoi ministri sul banco degli imputati se vogliamo fare un processo per questo secondo lockdown mascherato. Le opposizioni parlamentari hanno dato il peggio di sé, chiedendo sistematicamente l’opposto di quello che il Consiglio dei ministri decideva (chiudete? Dovevate aprire; aprite? Avreste dovuto chiudere!), come se essere minoranza significasse essenzialmente agitare bene (come si fa con la schiuma da barba). E adesso che il Presidente Sergio Mattarella chiede la responsabilità della corresponsabilità, l’emergente leader Giorgia Meloni (FdI) non sa fare di meglio che tornare a chiedere elezioni anticipate.
Se Roma piange, piange anche Firenze. Per oltre un mese in Toscana è andato in scena il duello surreale tra Eugenio Giani (centrosinistra) e Susanna Ceccardi (centrodestra) per prendere il posto del governatore uscente Enrico Rossi. Un dibattito vecchio decrepito che prescindeva quasi del tutto (escluse le richieste di aiuti al governo nazionale) dallo sconquasso causato nell’economia e nello sviluppo dalla pandemia: infrastrutture, manifattura, ricerca, eccetera eccetera. Il piccolo, su cui si è basato da sempre il sistema produttivo regionale, non è più bello. Con la paralisi dei mercati globali il nostro Pil è calato drasticamente, e sono andate in crisi le aziende e le filiere legate alla moda, al lusso, al made in Italy. Che fare, dunque? Peccato che dopo la vittoria (larga) nelle urne, Giani ci abbia messo un altro mese per varare la sua giunta. Doveva decidere una spartizione dei posti che mettesse d’accordo tutte le correnti e i potentati del Pd (zingarettiani, lottiani, bonafeiani, marcucciani e nardelliani), che si sono marcati stretti, ma alla fine si sono fatti sfilare dal solito Matteo Renzi la vicepresidenza...
Due mesi e più, insomma, di lontananza dai problemi concreti dei cittadini. Solo pochi giorni fa, Giani ha annunciato di avere disposto 4 miliardi per pagare bus privati in grado di rendere meno pericolosi i movimenti dei pendolari. Immediate le stoccate su Facebook: chiudete la stalla quando i buoi sono già scappati. E Giani corre, corre e rincorre. Ma il traguardo nessuno sa dove sia.
E poi c’è Dario Nardella. Un caso. Chi prima della pandemia pensava che il sindaco di Firenze potesse portare a termine un secondo mandato pieno di decisioni coraggiose, perché liberato dai vincoli della rielezione, si era già ricreduto. Nessuna strategia vera per combattere la rendita che ha trasfigurato la città; nessun passo avanti nella lotta contro il degrado che ha tolto anima e dignità all’area tutelata (sulla carta) dall’Unesco; nessun ripensamento sulla tramvia per Bagno a Ripoli, che metterà a soqquadro la parte a sud-est della città sconvolgendo l’assetto urbanistico disegnato dal Poggi nell’Ottocento; nessun cambio di marcia sulla Ztl che ha desertificato il centro di giorno per aprirlo di notte al popolo dello sballo, con buona pace dei residenti. Quando si è mosso è andata male, come con lo spostamento del mercato ortofrutticolo di Novoli per fare posto al nuovo stadio: Rocco Commisso ha sentito aria di fregatura (tempi incerti e costi eccessivi) e ha detto stop. E che dire della bufera scatenata oltre un anno fa con le nomine al Maggio? Le parole d’ordine del sindaco sono, ovviamente, tutte ispirate al politicamente corretto: più verde, più vivibilità, più socialità, più piste ciclabili, più mobilità condivisa. Ma i fiorentini hanno continuato a vivere come prima: in periferie ordinate ma bruttarelle e noiose, o nel centro dei mille disagi. Poi è esploso il Covid 19. Con la forza di un terremoto. Improvvisamente tutti hanno realizzato che dentro la cerchia delle vecchie mura e dei viali Firenze viveva ormai solo di turismo.
Firenze senza turisti
Nello spazio di pochi giorni quella grande catena di guadagni è venuta meno. Sparita, come gli incassi delle paninerie, delle pizzerie a taglio, dei vinaini, delle gelaterie e delle pelletterie. Ma anche Palazzo Vecchio viveva di turismo e torpedoni grazie alla tassa di soggiorno. È crollato così quel modello che tutti o quasi deprecavano ma che molti sfruttavano. Con un catalogo sempre uguale a se stesso: cibo per turisti, case per turisti, negozi per turisti, servizi per turisti. Anche chiese (a pagamento) per turisti.
In una città rimasta vuota, con pochi residenti superstiti e senza più un turista né una studentessa delle università americane, a giugno Nardella si lanciò in uno dei suoi tipici crescendo rossiniani. Disse: serve una rivoluzione, bisogna ricostruire Firenze. Una Firenze tutta diversa. E dopo pochi giorni radunò l’intellighenzia cittadina nel Salone dei Cinauecento per presentare il manifesto della sua rivoluzione: “Per un nuovo Rinascimento”. Parola che dovrebbe evocare le migliori doti municipali, ma che sempre più serve a coprire la pochezza dei propositi. Il documento conteneva intenzioni vecchie e nuove. I più ottimisti ci videro la cornice delle scelte che l’Amministrazione avrebbe poi dovuto fare, giocoforza. Ma a Firenze da mesi si parla solo dei ristori da dare ai locali chiusi; o delle proroghe da concedere ai tavolini all’aperto. La discussione pubblica si è inabissata e nessuno chiede più conto al sindaco della sua promessa rivoluzione. Dopo aver ceduto due dei suoi assessori (la vice Cristina Giachi e Andrea Vannucci) al Consiglio regionale, Nardella ha dovuto fare un rimpasto. Occasione preziosa per ridare slancio all’attività amministrativa e smalto alla squadra. Ha nominato due nuove assessore (Meucci di Iv e Albanese del Pd), ma per non discutere con chi ambiva a fargli da vice (gli assessori Del Re, Gianassi e Funaro) come numero due ha scelto l’assessora suo malgrado, quella Alessia Bettini che entrò in giunta all’ultimo tuffo per assicurare la parità di genere. La più simpatica e sgobbona del gruppo, ma anche la meno adatta per una svolta. Sembrano le mosse di un sindaco che sta pensando ad altro, ad uscire meglio possibile dalle sabbie immobili in cui la città si trova immersa per approdare, di nuovo, sulla ribalta della politica nazionale. Con un bello scranno parlamentare.
I “Folli di Dio” (da don Milani a La Pira e a padre Balducci) raccontati nel bel libro di Mario Lancisi hanno lasciato il posto ai profeti del nulla.
Vittorio, falegname, nel suo laboratorio in Oltrarno scuote la testa: “Firenze si è sollevata tante volte contando sulle sue forze. Questa volta però c’è un ma grande come una casa: quali sono le forze su cui la città può contare? Noi artigiani rappresentiamo l’identità storica, ma anni e anni di sviamento dei giovani da queste attività ci hanno svuotato le botteghe. Non si sa se e quando i turisti torneranno, ma sicuramente i prodotti del nostro artigianato continueranno a essere apprezzati in tutto il mondo. Forse potrebbe essere l’ultima occasione per investirci”.
Un atto di accusa. “No – dice Vittorio – solo un appello che cadrà nel vuoto. Perché chi decide dovrebbe prima di tutto amare questa città. Invece la si usa per aprirsi altre strade”. Oriana guarda e si rigira nella sua tomba tra i cipressi del cimitero degli Allori, oltre San Gaggio. Firenze non ha potuto più ascoltare le sue invettive. Per la fortuna di chi si è preso un posto al sole dopo che lei se n’era già andata. Delusa e arrabbiatissima, a ragion veduta. Ancor prima della sciagurata stagione del Covid. Ci manca più lei delle focaccine farcite per l’happy hour.