Un anno dopo
Paolo Ermini torna a parlare della sua città, di Indro Montanelli e delle occasioni perdute di Firenze, “cuccagna del peggior turismo”
Di Paolo Ermini
Un anno fa perdevo la direzione del “Corriere Fiorentino”, ma non il diritto-dovere di dare il mio contributo al confronto sul presente e sul futuro di Firenze e della Toscana, che per la verità è ormai ristretto a poche e coraggiose voci nonostante lo stato più che preoccupante che caratterizza sia l’una che l’altra.
E’ dunque il giorno giusto per chiedere ospitalità a “Il Machiavello”. E per riparlare un po’, innanzitutto, di Firenze. Ebbene, due giorni fa sono rimasto molto colpito dalla notizia che nella giuria di esperti internazionali chiamata a decidere come ristrutturare il vecchio stadio Franchi e come riqualificare tutto il quartiere del Campo di Marte non ci sarà alcun fiorentino, se non l’eccellente fiorentino d’adozione Eike Schmidt, direttore delle Gallerie degli Uffizi. Non c’è da contestare il profilo dei prescelti, autorevolissimi nei loro campi d’azione, ma l’idea che per ripensare un pezzo importante di città non servano la memoria di quello che è stato un quartiere e le sue attese, le sue necessità. Le città non possono e non devono essere perfette come costruzioni ideali, ma devono migliorarsi restando vive, perché non sono fatte solo di geometrie, monumenti, giardini e piste ciclabili, ma anche e soprattutto di chi le vive, di chi ci abita, di chi lavora. E poi come non cogliere in questo annuncio una contraddizione stridente con quello che è stata la storia di Firenze? La sua grandezza la fecero i fiorentini. E non parlo solo dell’estetica urbana, ma anche della grandezza economica, finanziaria e sociale della città, dal Fiorino moneta d’Europa allo Spedale degli Innocenti. In un intreccio di saperi e genialità che ha fatto di Firenze la prima capitale culturale, come ci ha ricordato nelle scorse settimane la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Layen. Ma niente è garantito per sempre se non si ha la capacità di alimentare la vena creativa e l’identità di una grande costruzione umana. Come sarebbe compito di quella che ormai stentiamo a definire classe dirigente.
A cavallo degli anni Sessanta e Settanta Indro Montanelli condusse una grande battaglia per salvare Venezia. Lo ricorda Marco Travaglio nel libro “Indro. Il 900” (Rizzoli editore) appena uscito nelle librerie. Scriveva Montanelli: “E’ stata la mia battaglia più lunga (…). Finché non mi sono reso conto che sono i veneziani che non vogliono salvare Venezia. Non ho mai trovato gente di vedute così strette e di mentalità così bottegaia come i veneziani. E allora che si fottano. Salvare una città a dispetto dei suoi abitanti è impresa impossibile. L’unica salvezza, per Venezia, è che un organismo sovracittadino, meglio ancora se sovranazionale, tipo l’Europa o l’Onu, trovi il coraggio di assumerne il controllo con pieni poteri, la sottragga alle sue sciagurate classi dirigenti volute dai suoi sciaguratissimi elettori, e l’affidi a un dittatore, che per pudore potremmo chiamare Doge, con l’incarico di farne una repubblica indipendente. Ma indipendente davvero. Anche e soprattutto dai veneziani”. Impareggiabile Montanelli, con i suoi paradossi e con la forza dei suoi anatemi, mai privi di ironia.
Fiorentino di Fucecchio, Indro risparmiò a Firenze un trattamento analogo. Innanzitutto perché Venezia cominciò assai prima a sprofondare. E poi per amore, credo, non per indifferenza alle sorti della nostra città. Quando negli anni Novanta del secolo scorso in via Solferino si mise in cantiere il progetto di realizzare un’edizione toscana del “Corriere della Sera” (che arriverà solo dieci anni dopo), Montanelli mi chiamò da “Bice”, il suo solito ristorante milanese vicino a Corso Venezia, e mangiando (lui) due-fagioli all’olio-due mi disse che avrebbe volentieri dato una mano all’impresa: “Consideratemi a disposizione”. Erano le parole di un grande che conservava intatto il legame con la sua terra.
Chissà che cosa Montanelli avrebbe scritto su Firenze e sulla Toscana. Di Firenze sicuramente gli sarebbe andato di traverso questo costante declino che tanti non vedono perché abbagliati dalla bellezza del nostro patrimonio artistico. Un declino che ha molte facce, ma che simbolicamente può essere ben rappresentato dalla farsa dell’aeroporto di Peretola e della sua nuova pista. Quanto all’abbondante resto, manca una visione complessiva della città, non c’è una volontà vera di procedere in una dimensione metropolitana che coniughi una volta per tutte gli interessi del capoluogo e quelli dei Comuni circostanti, non c’è neppure un accenno di quella svolta radicale dello sviluppo, promessa da Palazzo Vecchio con grande enfasi, e che sembrava inevitabile dopo lo scoppio della pandemia e il collasso di un sistema votato all’over-tourism e travolto dal Covid. Girando per il centro di Firenze, di quella rivoluzione vediamo la sua caricatura: una vergognosa distesa di tavolini unti e bisunti sparsi ovunque, anche su marciapiedi di 30 centimetri; mentre le periferie languono nella loro insignificanza, con poche eccezioni e nonostante gli apprezzabili sforzi dei Consigli di quartiere e dei loro Presidenti. In ordine sparso: qualcuno si è accorto del caos del carico-scarico delle merci a tutte le ore? E qualcuno si è accorto che la raccolta dei rifiuti così non può funzionare perche è fonte di disagi continui per la cittadinanza, sia di giorno (per gli ingorghi) sia di notte (per il frastuono dei mezzi impegnati)? Esempi. Solo esempi. Ma, in compenso, di maxi piani per una Firenze diversa rimasti tristemente nei cassetti sono piene le raccolte dei giornali fiorentini. Ne ricordo uno: la riunificazione di tutti musei scientifici cittadini nell’immensa struttura dell’ex scuola dei carabinieri in Santa Maria Novella, anche se era chiaro fin dall’inizio che mai ne sarebbe stata possibile la realizzazione.
L’unica vera opera strutturale andata in porto è la tramvia. Un’opera sbagliata di per sé, perché questa città, con il suo delicato tessuto urbanistico, imponeva che si andasse sotto terra a trovare la funzionalità dei trasporti; un’opera che esclude tanta parte di città dalla sua fruizione e che è gravemente limitata sul piano tecnologico, come dimostrano la selva dei pali di ghisa in piazza Stazione o il gracidio delle rotaie a ogni modesta curva. E ora va in scena la guerricciola tra Comune e Sovrintendenza sulla lunghezza delle pensiline nel tratto dei Viali della nuova tramvia per Bagno a Ripoli. Come se il disegno urbanistico dell’architetto Poggi fosse offeso dalle pensiline e non dalla costruzione della tramvia stessa sulla nostra circonvallazione “alla parigina”, che invece ha ottenuto disco verde dalla medesima sovrintendenza.
Concludo. In questi giorni è stata accolta con entusiasmo, giustamente, la notizia che San Miniato al Monte, il piazzale Michelangiolo e le Rampe (grotte e fontane, però, non i locali…) sono stati dichiarati dall’Unesco Patrimonio dell’Umanità. Magari ricordiamoci che tutto il centro storico di Firenze lo è da anni, ma che il riconoscimento non ne ha impedito la trasformazione in un avvilente cuccagna del peggior turismo. Quello che usura il patrimonio di tutti e gonfia i portafogli solo di chi ci lucra sopra. Nell’acquiescenza generale delle istituzioni. Unesco compresa.