Riletture (il Jobs Act visto da Tommaso Nannicini)
Dopo che la Corte Costituzionale ha dichiarato ammissibile la richiesta di referendum abrogativo, si è tornati nuovamente a parlare di Jobs Act.
Nel 2022, in occasione del mio viaggio giornalistico dentro il Pd, che poi ha dato vita a “Quale Pd”, pubblicato nel 2023 da Laterza, andai a trovare l’economista Tommaso Nannicini, oggi professore di Economia Politica all’Istituto Europeo di Fiesole.
Penso sia utile andare a rileggersi (o a leggersi) l’intervista a Nannicini, che qui sotto vi ripropongo (per chi ha il libro: è a pagina 74).
Mi pare sia arrivato il momento di incontrare Tommaso Nannicini, economista, già consigliere economico e poi, dal 2016, sottosegretario alla presidenza del Consiglio ai tempi di Renzi, dal quale peraltro negli ultimi anni si è allontanato sul piano politico, restando nel Pd. Vorrebbe scrivere un libro sul Jobs Act, visto che, dice, da anni viene continuamente citato a sproposito nelle campagne elettorali. “Ragazzi, ve lo buco ’sto Jobs Act. È cambiato il mondo e ci abbiamo già fatto due campagne elettorali. Quell’intervento era un pacchetto fatto di otto decreti: dalla Naspi alle politiche attive, dalla conciliazione vita-lavoro alle finte partite Iva, e via snocciolando. Il più controverso – ma non il più rilevante – di quei decreti, quello sui licenziamenti individuali, è stato superato dalla Corte costituzionale. Chi litiga in astratto su quella riforma, pro o contro, dimostra solo di essere lontano dai problemi del Paese. Io sono pancia a terra per parlare di futuro con i nostri distretti: energia, salari, sicurezza del lavoro, formazione”, ha scritto Nannicini su Facebook, poco prima delle elezioni del 25 settembre 2022.
Lo incontro in un caffè di Firenze prima del congresso del Pd, quando infuria (ancora!) il dibattito su renziani e antirenziani, neoliberisti e antiliberisti. Dice che nel Pd su lavoro ed economia c’è una spiccata tendenza a buttare tutto in vacca, personalizzando sommovimenti storici che esistono a prescindere della contingenza. Sono i pendoli della Storia. “Hirschman lo chiamava il pendolo fra felicità privata e felicità pubblica. Quando esisteva l’egemonia socialdemocratica, se la destra andava al governo gestiva le imprese pubbliche e la spesa sociale. E perché? Perché c’era, appunto, un’egemonia progressista. Dopo è cambiato il paradigma: l’egemonia è passata ai conservatori. E quando andava al governo la sinistra privatizzava e metteva il welfare in cura dimagrante. I pendoli della Storia, come si vede, sono innegabili. Ma non c’entrano nulla i renziani e i non renziani, i veltroniani e i non veltroniani”. Ci sono dei paradigmi che fungono da contesto storico-politico, dice Nannicini. “All’interno del paradigma del cedimento della sinistra al liberismo, se proprio vogliamo personalizzare, Renzi è Gorbačëv, ma D’Alema e Bersani sono Brežnev. Arrivano prima e fanno più danni”. E il Jobs Act in questa discussione da che parte sta? Quella dei neoliberisti col turbo? Nannicini ride amaramente. “Tanto per cominciare il Jobs Act è stato votato anche da chi oggi lo critica. Vedo una corsa di tanti compagni del gruppo dirigente a dire: ‘Io ho votato contro il Jobs Act’, ma gli unici che possono dirlo veramente sono Corradino Mineo, Pippo Civati e Luca Pastorino, che hanno effettivamente votato contro. Tutti gli altri hanno votato a favore o al massimo non si sono presentati. Sono stato in Parlamento anch’io, e se vuoi fare una battaglia politica, vai e voti in dissenso dal gruppo, non ti imboschi. In fondo, molti compagni hanno trovato il coraggio del dissenso aperto, quando c’era da far perdere il Pd al referendum del 2016. Sul Jobs Act si sono limitati a darsi malati”.
Eppoi, entrando nel dettaglio, “il Jobs Act è fatto appunto di otto decreti, alcune cose hanno funzionato, altre no, come capita con tutte le riforme complesse. Chi dice che ha creato un milione di posti di lavoro dice una scemenza; chi dice che ha distrutto i diritti dei lavoratori dice un’altra scemenza. Chi parla così, in entrambi i casi, non è interessato ai diritti di chi lavora. È una discussione sul niente, fatta da entrambe le parti per nascondere un impressionante vuoto di idee. Il Jobs Act è una riforma ampia, ha luci e ombre e bisognerebbe parlarne in questi termini, non buttarla in vacca. Durante la fiducia al governo Meloni ben sei parlamentari hanno citato il Jobs Act. Per non dire di quanto ne hanno parlato in campagna elettorale Letta e Renzi, facendosi male da solo il primo. Un teatrino ridicolo”. Sul Jobs Act, dice Nannicini, “c’è un pregiudizio ideologico. Poi per carità, l’errore l’ha fatto per primo il governo di cui ho fatto parte: l’articolo 18 l’avevano già cambiato Monti e Fornero, non c’era bisogno di enfatizzare tanto il tema, ma a un certo punto Renzi decide di usarlo come un simbolo. Per riusare il paragone di prima, anche il Jobs Act in fondo è una riforma Gorbačëv: amata all’estero e odiata in patria”. E perché? “Perché era pensata per essere venduta all’estero. Doveva convincere la Merkel a darci i soldi della flessibilità per gli ottanta euro. L’idea era, appunto, di far arrabbiare i sindacati e far tornare gli investitori internazionali. Serviva al presidente del Consiglio giusto come simbolo, come feticcio ideologico. È stato un errore toccarlo in quel modo senza dialogare con i sindacati, ma nella riforma c’era tanta altra roba positiva. Poi, per carità, sul resto abbiamo fatto troppo poco;
abbiamo messo pochi soldi sulle politiche attive e gli ammortizzatori sociali. Ci abbiamo investito poco perché l’obiettivo era, appunto, un altro. Ma la direzione di quegli interventi era e resta giusta. Una delle più grandi scemenze che circolano è che il Jobs Act ha creato contratti precari. Cavolo, è esattamente il contrario: dopo le riforme precedenti, dalla Treu alla Biagi, che puntavano tutto sui contratti flessibili, era la prima volta che si provava a stringere il precariato, abolendo i co.co.pro. e stringendo le false partite Iva, con una norma che a Torino hanno usato anche i riders per avere più diritti. Poi anche lì avremmo dovuto fare di più, per esempio tornando indietro rispetto al decreto Poletti, che liberalizzava i contratti a tempo determinato e col Jobs Act non c’entrava niente. Ci abbiamo pensato e avremmo voluto farlo, ma poi ha prevalso la paura di ridurre l’occupazione in una fase ancora difficile per la nostra economia”. Su questi temi Nannicini è un fiume in piena: “Se non fosse tragico per lo stato di salute del Pd, farebbe sorridere che chi sostiene l’equazione Jobs Act uguale precariato cita come modello la Spagna. La Spagna? Stiamo scherzando? Lì c’è un tasso di precariato doppio rispetto al nostro e si licenzia senza giustificato motivo dando al lavoratore solo poche mensilità. Dopodiché, lo ripeto, molti pezzi del Jobs Act non hanno funzionato perché non ci abbiamo creduto abbastanza, ma non perché erano sbagliati. Avremmo dovuto metterci più soldi, mentre invece tutto il capitale politico, nel bene e nel male, è andato su quella norma sui licenziamenti. Era un simbolo. Alcuni pensavano che servisse ad attirare investimenti. Di sicuro è servito a perdere voti”.
Detto questo, i nodi non sciolti della vita del Pd sono parecchi e strutturali. Quello principale riguarda, osserva Nannicini, “la tensione fra una cultura politica proporzionalistica e un’organizzazione politica ipermaggioritaria. È una tensione che non sappiamo gestire. La cultura politica proporzionalistica è quella della giustapposizione. Cambiano i nomi, ma la sostanza resta la stessa: all’inizio c’erano ex Ds ed ex Margherita, poi renziani e non renziani, radicali e riformatori. Non abbiamo mai investito su una sintesi culturale, cioè su che cosa sia un partito riformista di massa nell’Italia e nel mondo di oggi”. Insomma, dice Nannicini, “non abbiamo mai lavorato a una nuova cultura politica. La giustapposizione serve al ceto politico per esistere. Ma scusate, che cosa vuol dire oggi essere ex Ds o ex Margherita? O anche ex renziani o ex non renziani? Il problema è che le nostre non sono correnti di pensiero, ma protettorati. Sono un franchising. Non solo nel Mezzogiorno, ma anche a Prato! Un dirigente di partito sta con l’uno o con l’altro a seconda di cosa gli serve”.
Ma i problemi non finiscono qui, argomenta Nannicini: “È che facciamo una giustapposizione di culture politiche, a volerle nobilitare, poi però l’organizzazione è maggioritaria. Lo schema è sempre lo stesso. Un leader vince. Il giorno dopo tutti criticano il leader che decide da solo. Ed è ovvio: non è che la tua linea politica puoi deciderla su Twitter solo perché hai vinto le primarie. Blair ogni anno doveva superare indenne una conferenza programmatica. Se andava in minoranza sulla scuola, non poteva far passare una riforma della scuola che la conferenza annuale, aperta ai sindacati, alla società, non aveva approvato. Non poteva farsi i fatti propri su Twitter, insomma. Come succede a noi, chiunque sia il segretario, Renzi, Zingaretti, Letta”. Lo abbiamo visto sempre, nel Pd. C’è un nuovo segretario, e il giorno dopo tutti iniziano ad attaccarlo. “Gli altri ti attaccano finché non trovi un accordo che dia loro qualche prebenda. È per questo che noi oscilliamo costantemente tra la guerriglia al leader e il patto di sindacato tra correnti. Quando il livello della guerriglia diventa insopportabile, il leader di turno è costretto a chiudersi in una stanza e a fare il patto di sindacato tra correnti (pardon, tra protettorati)”.
È successo anche a Renzi, dice Nannicini. Dopo il referendum costituzionale del 2016, dopo il secondo congresso vinto nel 2017. “Lì avremmo dovuto votare. Nel 2017 i sondaggi ci davano ancora al 29 per cento. Magari andando a votare prima avremmo perso voti e preso il 24, ma non il 18 come poi è successo nel 2018. Ci siamo fatti logorare”. E perché Renzi non staccò la spina al governo Gentiloni? “Dopo la sconfitta al referendum aveva perso sicurezza, aveva tutti contro e gli tremò la mano. Ma fu un errore. Non solo per il Pd ma per il Paese, la legislatura era finita e non aveva senso continuare a governicchiare per tenere in piedi il patto di sindacato tra caporali del Pd, come dimostrò il grave errore sullo ius soli sul quale il governo Gentiloni non volle mettere la fiducia. E non è che dico queste cose col senno di poi, io in quel governo decisi di non entrare, anche se Gentiloni e Renzi insistettero molto perché restassi come sottosegretario alla presidenza. Ma senza tanti proclami decisi di tornare al mio lavoro, perché non aveva senso tirare avanti in quel modo. Dopo il Lingotto del 2017 avremmo dovuto staccare la spina e andare a elezioni anticipate. È stato un errore di tanti, lo fece anche Craxi nel ’91. Di legislature che durano un anno in più e uccidono i leader di partito c’è una ricca tradizione. Renzi arrivò alle elezioni politiche così arrabbiato per essersi fatto logorare che si sfogò facendo fuori gli avversari interni nelle liste elettorali”. Di nuovo, un Pd che oscilla fra guerra e pace. “Una volta c’è il patto di sindacato, un’altra volta la guerriglia. Letta in sei mesi ha fatto lo stesso: ha siglato un patto di sindacato con correnti vere o presunte, compresa Base riformista, come quest’ultima aveva già fatto in precedenza con Zingaretti. Poi è arrivato il momento delle liste, e Letta si è chiuso in una stanza col suo braccio destro per comporle, fregandosene di qualsiasi criterio di rappresentanza diverso da certe frequentazioni. La storia si è ripetuta pari pari. Se non sciogliamo questa tensione fra cultura politica proporzionalistica, per giustapposizione, e organizzazione politica ipermaggioritaria, dove il leader e i suoi amici hanno un potere enorme, la storia continuerà a ripetersi”. Quantomeno, chiosa Nannicini, “Renzi ebbe il coraggio di dimettersi. Letta e i suoi sono rimasti lì. Ma pensiamo che cosa sarebbe successo se nel 2018 Renzi avesse detto: ‘La sconfitta ci farà bene, resto traghettatore, Lotti fa il questore del Senato, Rosato e Zanda restano capogruppo’. Sarebbero venuti i vigili del fuoco a spengere gli incendi nelle sezioni. Ecco, è quello che è successo con Letta dopo la sconfitta del 25 settembre”.
Aggiunge poi Nannicini: “Con Matteo ci siamo allontanati politicamente, però lo stimo. Non voglio fare il suo difensore d’ufficio, ma francamente bisogna dire che ha avuto un altro stile. Nel 2018 aveva vinto il congresso da un anno con quasi il 70 per cento. Non si può dire che la sconfitta fosse solo sua. Eppure si dimise subito. Letta è tornato da Parigi, non eletto da nessuno, visto che non ha vinto un congresso, ha firmato un patto di sindacato con un ex segretario, Zingaretti, che si era dimesso su Facebook, non in Direzione, dicendo che il partito e le correnti facevano schifo, salvo poi tornare alle elezioni politiche per candidare sé stesso e i suoi, facendoci perdere la Regione Lazio. Un capolavoro. Dopodiché, in campagna elettorale le abbiamo sbagliate tutte, non proprio il massimo per un partito guidato da chi ha sempre fatto politica come mestiere. In una situazione del genere chiunque si sarebbe dimesso il giorno dopo”.