Le trattative politiche non sono mai diverse da quelle, ordinarie, che conduciamo ogni giorno. C’è un prezzo da pagare, che sia in denaro o altro non fa differenza, per ottenere qualcosa. Può cambiare l’oggetto della compravendita - terre, libertà, una scatola di pelati - ma la legge della domanda e dell’offerta resta la stessa. La trattativa politica tuttavia può avere una differenza sostanziale e riguarda la potenziale coercizione imposta da uno dei contraenti, mentre se vai al supermercato non c’è nessuno che ti punti una pistola alla tempia per comprare i pomodori Mutti.
Abbiamo studiato o visto o intravisto o intrasentito abbastanza guerre per non volerne più sapere; è legittimo cercare di vivere in pace, bramare la convivenza senza frizioni, odi, bombardamenti e carestie. Ma con l’irenismo si va da poche parti in generale, figuriamoci quando si ha a che fare con i gangster, abili nell’arte retorica della menzogna. Il gangster vuole sempre qualcosa che non può avere se non con l’uso della forza, un diritto che rivendica costantemente. Vladimir Putin è esattamente questo: per lui la menzogna è uno strumento non di governo, ma di comunicazione. Dunque non si può credere a nulla di quello che dice, perché sono le sue azioni a parlare per lui.
Siccome non è lecito aspettarsi niente dalla gloriosa e coraggiosa opposizione russa - troppo piccola, troppo infinitamente piccola rispetto al regime - che muore credendoci come Naval’nyj, dobbiamo fare con quel che abbiamo. E che cosa abbiamo? Donald Trump maneggia le trattative seguendo il suo istinto, forse i suoi interessi, forse pensa che il mondo sia una compravendita di palazzi, non so, il mio pregiudizio positivo verso gli americani mi fa sempre retro-pensare che alla fine il sistema dei pesi e contrappesi statunitensi possa risolvere persino i problemi che un presidente alla Casa Bianca crea. Ma anche questa deve essere una forma di ottimismo stupido, che diamine, d’altronde mica siamo a Hollywood.
Di una cosa però mi sento certo: che a Putin non interessa fermarsi, concedere niente; semplicemente, vuole quello che chiede. Territori, legittimazione. Una legittimazione politica, culturale, linguistica; la lingua (quella russa) è il veicolo del pensiero, anche nel mondo di ChatGPT e di DeepL, dove tra un po’ non ci sarà più bisogno di conoscere nuove lingue perché tutto sarà tradotto nativamente.
Dopo tre anni di guerra e di sostegno finanziario e politico all’Ucraina, la legittima ambizione è quella di mettere fine al conflitto. La domanda però è sempre la stessa: a quale costo? Qual è, e qui si torna al punto di partenza, il prezzo da pagare? Dare a Putin quel che chiede, quel che vuole. Non penso però che si fermerebbe lì. Il gangster, una volta capito che può ottenere qualcosa con la violenza (tre anni di bombardamenti a un Paese non disposto a rinunciare alla propria autodeterminazione), innescherà un altro conflitto. Perché fermarsi quando si può avere tutto e c’è qualcuno che per sfinimento te lo concede?
Mi sono sempre chiesto quanta voglia avremo di continuare ad aiutare come possiamo l’Ucraina, in un’epoca declinante in cui si dibatte se i prezzi degli ombrelloni sono diventati troppo alti, in cui c’è un pubblico sufficiente e con la soglia d’attenzione adeguata a certificare il successo di Temptation Island, in cui la sofferenza connaturata all’essere umano, con risorse scarse e bisogni infiniti, è scartavetrata dall’inclinazione perenne all’intrattenimento.
A un certo punto potrebbe pure venire la voglia di dare al gangster quel che pretende, nella speranza vana che non voglia altro.
Ma se avete visto “Smoke”, nuova serie di Apple TV+, quello che dice il personaggio di Dave Gudsen (investigatore di incendi dolosi che nasconde più di un segreto) interpretato magistralmente dal sontuoso Taron Egerton, vi suonerà tristemente familiare:
“Sì, tutti noi agiamo per appetito. Lo chiamiamo in cento modi diversi, però, è soltanto… ‘Sono affamato e mangio… adesso!’. L’appetito è una scelta? Fanculo, no. È solo appetito”.
Putin ha fame e mangia… Adesso, subito.