L'arte di dare la colpa all'elettorato
La tentazione di dare la colpa all’elettorato — quell’elettorato brutto sporco e cattivo che vota Donald Trump — è forte. E infatti c’è chi se la prende con quei “bifolchi” appartenenti al popolo trumpiano, dicendo che sono sostanzialmente dei cafoni disposti a votare per il peggiore tra i gangster.
Per carità, per carità!, Trump ha delle responsabilità evidenti, per quanto mi riguarda, ed è quello che è, e gli eventi del 6 gennaio del 2021 non arrivano per caso.
Ma non penso che dare di farabutti agli elettori che hanno scelto Trump serva a qualcosa. Soprattutto non serve a capire i fenomeni sociali, politici ed economici.
In realtà sarebbe più interessante capire perché la gente vota Trump.
Lo farei io direttamente se potessi. Vorrei infatti che qualcuno andasse negli Stati Uniti e parlasse con gli elettori di Trump. Vorrei che ci passasse del tempo. Qualche mese persino. Vorrei che un giornale italiano lo facesse, che inviasse un giornalista negli Stati Uniti per parlare con la gente. Con l’elettorato trumpiano.
Non perché la gente abbia ragione di per sé, ma perché penso che studiare le ragioni dell’altro — qualsiasi altro esso sia — sia utile a trarre delle dovute conseguenze.
Il che non significa necessariamente condividere quelle ragioni.
Invece qua mi pare che sia troppo semplice ridurre tutto al popolo bue che vota il fascista di turno.
“Non si vince un’elezione dando del razzista o del sessista o dello stupido alla gente comune. Si vince ascoltandoli”, hanno scritto
e Oliver Wiseman su The Free Press: “E la nostra élite mediatica ha messo la testa sotto la sabbia. Di nuovo. Sembra che pensino che, continuando a dare del bigotto agli americani, un giorno capiranno il messaggio”.Nella mia carriera giornalistica mi è già capitato di confrontarmi con analisi superficiali dei fenomeni sociali.
Anche direttamente.
Nel 2018 quando la Lega vinse a Pisa cercai di capire perché una città non di estrema sinistra ma comunque progressista si buttò a destra. Non fu un caso peraltro, come dimostra il fatto che cinque anni dopo la destra ha rivinto le elezioni amministrative.
Fu molto interessante parlare con gli elettori di centrosinistra o addirittura di estrema sinistra che nei quartieri popolari periferici — come il CEP, quartiere di edilizia popolare — avevano scelto la Lega e Matteo Salvini.
Ora, gli abbagli in politica esistono e probabilmente c’è una serie di persone rimaste abbacinate dalle balle, che esistono e non vanno sottovalutate. Così come non vanno sottovalutate le manipolazioni delle campagne elettorali (uno degli argomenti di cui parlo nel mio ultimo libro).
Però c’è una certa tendenza a non vedere i fatti, a non volerli capire, vuoi per snobismo, vuoi per superficialità, vuoi per ideologia.
Trump ha vinto con un margine nel voto popolare di alcuni milioni, il che è un po’ distante da quel testa e testa che i sondaggi ci hanno offerto nei giorni precedenti il 5 novembre 2024.
Non possiamo piuttosto concentrarci sul fatto che forse — dico forse — Kamala Harris, non era la candidata giusta?
Aver giocato parte della campagna elettorale sul voto delle donne per una donna non è senz’altro stato utile alla causa. Peraltro è esattamente quello che era successo a suo tempo con Hillary Clinton nel 2016, quando Trump vinse la prima volta le elezioni.
Forse i Democratici si sarebbero dovuti muovere in tempo, prima dunque del disastroso dibattito televisivo fra Joe Biden e Trump.
Ma con i se non fa la storia, si dice, e direi nemmeno la cronaca politica. Si può però pensare di essere più laici possibili con l’analisi dei dati di fatto e porsi qualche domanda: il problema è degli elettori, che senz’altro sbagliano come tutti, oppure della candidatura dei Democrats?