La barbarizzazione dei (presunti) romani
Il Pd si era dato come compito la romanizzazione dei barbari. Il risultato è che è stato pesantemente egemonizzato dal grillismo. Il caso del referendum sul taglio del numero dei parlamentari
Il Pd si era dato come compito – all’alba del secondo governo Conte, in virtù di una presunta superiorità antropologica – la romanizzazione dei barbari.
Il risultato, un anno dopo, è che il centrosinistra è stato egemonizzato culturalmente dal grillismo, come fra le altre cose dimostra la compartecipazione al terribile referendum del prossimo settembre sul taglio del numero dei parlamentari; taglio peraltro che ha ottime probabilità di essere confermato, con l’aria che tira, e non da ora (l’antipolitica, l’antiparlamentarismo e l’antipartitismo non si inventano in pochi mesi, alle spalle ci sono anni di esercizio strutturato).
Per anni il centrosinistra si è posto il problema di come fare a contrastare le sortite populiste. A un certo punto è arrivata la risposta: uno zelante scimmiottamento. Da questo punto di vista, dunque, non stupiscono le posizioni del Pd sul referendum, di cui peraltro non si parla abbastanza. Il Paese ha la testa altrove, tra contagi che risalgono e vacanze più o meno impaurite.
Non è tuttavia un dettaglio ridurre i deputati da 630 a 400 e i senatori da 315 a 200.
Per qualcuno sembrerà invece normale. Decenni di sortite anti casta hanno sortito l’effetto desiderato: pensare che la politica sia uno spreco, un costo da tagliare, da ridurre. Alla costruzione, nell’opinione pubblica, di un simile sentimento hanno contribuito giornali e partiti, come il M5s, che per anni ha campato politicamente con l’assalto ai politici fino a prendere il potere e aderire però al medesimo schema che veniva contestato. La forza del M5s resta, nonostante l’epoca d’oro del 32 per cento sia finita, perché prima di iniziare la parabola discendente ha fatto in tempo a contaminare il dibattito pubblico e a dettare l’agenda, piegando gli alleati più intimoriti alle proprie intenzioni. Il Pd, insomma, sul referendum e non solo, si è limitato ad andare a rimorchio.
“Il Pd si è arreso al populismo, dica no al referendum”, ha scritto Giorgio Gori nel suo nuovo blog su Huffington Post, spiegando bene di cosa stiamo parlando:
“Parliamo del provvedimento ‘bandiera’ del populismo a 5 stelle, benedetto dal populismo di destra e infine dall’intera aula di Montecitorio – con l’unica eccezione dei deputati di +Europa – in un impeto autolesionistico in cui, per sembrare dalla parte del popolo, per non rischiare un’oncia di consenso, la casta ha pensato bene di dichiarare guerra alla casta, accettando di descriversi come una banda di poltronari privilegiati mangia-pane-a-tradimento, il male assoluto da estirpare o quantomeno da amputare – diciamo del 30 per cento - in cambio di un risparmio che i grillini millantano superiore ai 500 milioni e l’Osservatorio Cottarelli ha quantificato in 57 milioni scarsi (lo 0,007 della spesa pubblica) e Sabino Cassese ha riportato alla sua concreta entità: parliamo di 1/7 del costo di uno solo dei novanta F35 che l’Italia si è impegnata a comprare”.
La questione si potrebbe chiudere qui, invece no. Anche perché va ricordato che il Pd, dopo essersi opposto quando non era al governo, s’è infine arreso appena sono iniziate le trattative con i grillini per formare il nuovo esecutivo, spiegando ai propri elettori che, “vedrete, adesso arrivano i correttivi e una nuova legge elettorale, e tutto andrà bene”.
I correttivi però non sono arrivati e niente va bene. Sicché, il Pd ha smesso di parlare del referendum, a parte qualche caso isolato (come il sindaco di Bergamo).
D’altronde, non bisogna disturbare il manovratore populista.