Avevo promesso un seguito di questo pezzo, eccolo.
Tra i capisaldi della rivoluzione renziana, annunciata all’alba del 2009, quando l’allora sindaco di Firenze sconfisse prima i suoi competitor alle primarie e poi, al ballottaggio, l’avversario di centrodestra Giovanni Galli, c’era anche un principio di rottura radicale: “Con me andranno avanti quelli bravi, non quelli fedeli”. D’altronde su questo paradigma aveva impostato tutta la campagna elettorale a Firenze, mentre gli avversari sponsorizzati da micronotabili ripiegavano su antichi sistemi di potere. La vittoria spalancò una voragine nel dibattito pubblico, perché a Firenze c’era uno che parlava chiaro e non si faceva intimorire dalla forza dei corpi intermedi, che fossero lo stesso Partito democratico o la Cgil (entrambi avevano puntato su altre candidature).
A molti convinse l’idea di uno che si era ribellato al sistema pur avendone fatto parte. L’iperpoliticismo di Renzi andava difatti di pari passo con l’annunciata rottamazione. La mentalità populista dell’homo novus faceva il paio con il professionismo politico di uno che, prima del 2009, anno in cui ne compì 34, aveva fatto in tempo a essere il capo del Partito popolare e della Margherita a Firenze, nonché a rifiutare l’incarico di vicesindaco (disse no a Leonardo Domenici), per poi diventare presidente della Provincia grazie a un accordo politico con i Ds.
Parte del suo successo era dovuto alla sua trasversalità. “Non ho vinto io perché ero un ganzo, è che gli altri erano fave”, fu il sigillo di Renzi sulla vittoria alle primarie. Dall’analisi di quella vittoria compiuta da alcuni studiosi di flussi elettorali – come quelli del gruppo di lavoro Primes, coordinato dai professori Gianfranco Pasquino e Fulvio Venturino –, colpivano un paio di punti che sono poi ritornati negli anni successivi. Renzi era trasversale, intercettava il consenso di elettori che andavano dal centrosinistra alla destra, mentre a sinistra il candidato che riuscì ad attrarre più voti fu Pistelli. Renzi arrivò primo tra i non iscritti. Piaceva all’elettorato dell’Italia dei Valori: il 49 per cento dei dipietristi trovava attraente o politicamente sostenibile la sua candidatura. Trionfò fra gli elettori che nel 2008, alle elezioni politiche, avevano votato per un partito di centrodestra. L’ipotesi del professor Venturino era che su quasi 38.000 votanti complessivi delle primarie, ci fossero stati tra i 2.000 e i 3.500 simpatizzanti che erano andati a votare alle primarie e gran parte di loro votò per Renzi. Voti determinanti, visto che la soglia del ballottaggio fu superata di appena lo 0,52 per cento: 150 voti. Quella manciata di voti fu sufficiente per ottenere, metaforicamente, un premio di maggioranza enorme. D’altronde, dice Al Pacino in Ogni male detta domenica, “la nostra vita è tutta lì, in questo consiste. In quei 10 centimetri davanti alla faccia”. O in quel centinaio voti di differenza dentro l’urna.
Fu l’inizio dell’avventura renziana. Renzi era così trasversale che la prima Leopolda nel 2010 la fece con Pippo Civati, ne uscì fuori una “Carta di Firenze” che terminava con la proposta di un Parlamento dimezzato, a metà prezzo, per un Paese dalla parte dei “promettenti” e non dei conoscenti, un sì alle unioni civili e un sì allo ius soli. Non una novità; era già nel programma del Pd del 2008 e in una proposta di modifica dello Statuto del Pd Veneto, mentre le unioni civili erano già a pagina 72 delle famigerate 281 del programma dell’Unione del professor Prodi.
Il sodalizio con Civati durò poco, giusto una Leopolda. La rottura arrivò dopo la visita di Renzi ad Arcore da Berlusconi. Civati disse che non ne sapeva nulla e non gradì.
La qualità politica di Renzi era la stessa del M5s delle origini, quando era così trasversale da avere un elettorato a tratti indistinto. Ricordo ancora quando all’ex teatro Tenda di Firenze, oggi Tuscany Hall, Renzi si presentò al primo congresso nazionale di SEL e fece venire giù il tendone dagli applausi della platea di sinistra, che si scaldò di fronte al futuro segretario del Pd che scandiva il nome di don Peppe Diana. Poco dopo, però, entrò nella fase “il liberismo è di sinistra”, circondato da una squadra politicamente connotata ma solida. C’erano Pietro Ichino, Luigi Zingales, Giorgio Gori, Giuliano da Empoli (quest’ultimo scrisse le 100 idee per l’Italia nel 2011), tutta gente che ormai ha preso la altre strade in autonomia.
Renzi e il M5s hanno in comune un destino analogo. Si sono presentati, in modi diversi, come risposta a una identica domanda di cambiamento. L’arrivo a Palazzo Chigi però li ha portati a fare delle scelte, a orientare le proprie politiche pubbliche, a connotarsi attraverso precise indicazioni sulle policies. Gli ottanta euro, i 500 per il bonus cultura. Da parte di Renzi, poi, c’era l’ambizione di farsi portavoce di una generazione non rappresentata, politicamente orfana, schiacciata da gerontocrazia e burocrazia.
L’arrivo a Palazzo Chigi però comportò una serie di compromessi che la politica impone, il sottogoverno pure. L’errore strategico più grosso – come si rivelò in seguito, ma non all’inizio – fu la rottura del patto del Nazareno, verificatasi con l’elezione di Sergio Mattarella alla presidenza della Repubblica. Lì si giocò la fiducia di Berlusconi e del centrodestra, dove pure Renzi aveva non pochi estimatori. Tant’è che a un certo punto si parlava pure dell’ex sindaco di Firenze come del possibile leader di quell’area. Dal 2015 in poi Renzi ha logorato la connessione sentimentale con quell’elettorato moderato che aveva scommesso con lui alle Europee del 2014, quando portò il Pd al 40,8 per cento.
Ricordo l’euforia: c’erano le feste del Pd in giro per l’Italia con gli striscioni e quel numerino magico scritto sopra. Quaranta per cento. Continuo a pensare che fu quello l’inizio della fine, perché Renzi aveva di fronte a sé l’uscita dal Pd o la trasformazione della propria leadership. Le promesse salvifiche d’altronde erano state molte. È vero che le aspettative verso i leader sono enormi, persino eccessive, come testimonia la storia di Barack Obama, ma è anche vero che Renzi ci mise del suo nel proporsi come un disarticolatore dei corpi intermedi.
Fra gli errori ci metto anche la sua gestione del Pd. A Renzi non è mai piaciuto fare il segretario di partito, ruolo che comporta l’incombenza di preoccuparsi di liti condominiali siciliane per scegliere l’assessore alla Salute e il candidato del centrosinistra alla presidenza del Veneto. Ha sempre amato il ruolo e il potere esecutivo. Diventò segretario del Pd perché quella era la via migliore per arrivare a Palazzo Chigi, congedando Enrico Letta in diretta streaming durante una direzione di partito. Uno dei passaggi politici più drammatici degli ultimi dieci anni (almeno), con la cerimonia della campanella e quei gesti fugaci e nervosi fra Renzi e Letta. Ha sempre concesso poco Renzi agli avversari e molto agli amici. Anche dal punto di vista del garantismo (citofonare Maurizio Lupi, suo ex ministro dei Trasporti, che fu spontaneamente costretto ad andarsene), questione sensibile nella storia politica di Renzi.
Da leader del Pd, Renzi si è completamente disinteressato del suo partito. A un certo punto il più grande e annunciato disintermediatore della storia politica recente si è affidato a quei politici che voleva rottamare.
Prendiamo il Mezzogiorno, che è sempre stato un tabù per l’ex segretario del Pd, che aveva suggerito il “lanciafiamme” per gestire il partito salvo accorgersi di non avere abbastanza petrolio. Era già, prima di Renzi, un problema antico, come ha più volte rilevato nei suoi studi il politologo Mauro Calise, che ha analizzato le storiche difficoltà del centrosinistra nel Mezzogiorno a gestire un partito in mano ai micronotabili. Una questione senza dubbio non affrontata da Renzi, che per l’appunto nei suoi anni da segretario si è affidato proprio ai micronotabili di cui, in teoria, si sarebbe voluto liberare.
Come scrive il politologo Mauro Calise nel suo “Fuorigioco” (Laterza), “siamo in presenza di una polverizzazione del processo di selezione della classe dirigente. Una frantumazione che ben si presta a far emergere i micronotabili come un elemento portante della struttura del Pd”. Nel Mezzogiorno era il Pd di Vincenzo De Luca a vincere, non quello di Renzi.
Calise ha analizzato a lungo il problema del centrosinistra nel Mezzogiorno: “La chiave dell’autodafé – o autodistruzione – del Pd sta nel fatto che, nel tentativo di sfuggire all’ascesa del macroleader, si è infilato nel cul-de-sac del micronotabilato”, ha scritto Calise.
Nel corso degli anni “mentre la scena ufficiale era occupata dallo scontro tra Direzione collegiale e leadership personalizzata, nelle retrovie andava avanti un processo di frammentazione interna che non ha precedenti nella storia democristiana e, tantomeno, comunista”.
Renzi voleva essere un disintermediatore anche al Sud, ma invece si è ritrovato con un partito in mano ai capibastone. A un certo punto lui se n’è andato, De Luca è rimasto lì. È sopravvissuto a Renzi e al dopo Renzi.