Penso di aver sempre voluto scrivere di politica. La prima volta che misi piede al Foglio avevo vent’anni precisi, compiuti da due settimane. Era l’estate del 2004, ad aprirmi la porta sul lungotevere Raffaello Sanzio fu Pietrangelo Buttafuoco. Era al telefono, aveva la camicia e la cravatta. Quell’estate divenne il mio maestro di scrittura, mi insegnò a cercare l’alba dentro l’imbrunire e a rifiutare il luogocomunismo. Nella scrittura, il luogocomunismo è la morte civile del lettore.
Per chi scrive, è una utile scorciatoia. Si usano frasi fatte, non costano niente, vanno bene per risolvere molte situazioni che potrebbero essere descritte invece da un lessico adeguato, ricco, preciso. Grazie a Buttafuoco imparai a odiare il luogocomunismo.
Nel giornalismo politico si fa sempre quadrato attorno a qualcosa, si aprono tavoli, si fa il punto, c’è sempre qualcuno che “dice ai suoi” - quando i “suoi” sono gli stessi giornalisti - ed è tutto un rimescolare di frasi, sempre le solite. È tutto un “sussurrare” o un “confidare”. È tutto un “intanto” quando si scrive un pezzo su un argomento e poi ci sarebbe bisogno di un altro pezzo su un argomento differente, ma bisogna fare con lo spazio che si ha a disposizione. Fateci caso. Per metà articolo, il giornalista parla delle misure del governo sull’emergenza sanitaria. Intanto però, verso metà pezzo, comincia a parlare di altro, chessò la presidenza della Repubblica. Intanto il lettore si trova strattonato, condotto con la forza fra un mondo e l’altro, pazienza se poi non capisce dove si trova oppure se è solo infastidito.
Quando ho iniziato a scrivere di politica, mi divertivo a leggere Buttafuoco e Stefano Di Michele sul Foglio, Filippo Ceccarelli su Repubblica. Francesco Merlo mi pare che fosse ancora al Corriere. Mi dicevo che un giorno avrei scritto come loro, con quel piglio narrativo che negli Stati Uniti viene usato da alcuni grandi giornalisti. Bisogna sempre imparare da chi è molto più bravo di te.
Non so se ci sono riuscito, ma di sicuro mi sono messo a rubare con gli occhi. Per un po’ di tempo, questo genere di giornalismo politico ha avuto grande fortuna. Era scrivere per il piacere di scrivere, ma trasmetteva informazioni, dunque contenuti. Chi l’ha detto che la politica debba essere pallosa? Si può parlare di argomenti pesanti e restare uomini di spirito. Lo spirito l’ho sempre cercato nelle mie letture. David Foster Wallace, Mordecai Richler, Philip Roth. Mi sono sempre sembrati dei grandissimi palleggiatori della letteratura, funamboli della parola, travolgenti nella scrittura. A prescindere dal genere, dall’oggetto di studio, lo spirito è ciò che differenzia un grande scrittore da uno mediocre. Forse vale anche per il giornalismo.
So di avvicinarmi a un certo stile quando mi cola il naso. Quando mi cola il naso mentre scrivo, significa che da qualche parte il mio cervello si è commosso. Deve essere senz’altro un esercizio di autoerotismo, dunque finalizzato all’onanismo e all’orgasmo intellettuale. Poco utile, forse, utilissimo per me. Mi aiutava e mi aiuta a capire se sto scrivendo bene o no. È come ascoltare una canzone ricca di significato e ritmo e con un tono teso e crescente.
Dico sempre che il miglior pezzo di giornalismo politico l’ha scritto uno che non faceva il giornalista di mestiere. David Foster Wallace, suicida prematuro. Ci ha lasciato con libri meravigliosi e la nostalgia e l’angoscia di chi non potrà mai più leggere nulla di nuovo, però potrà rileggere in continuazione quello che ha scritto. Infelici e soddisfatti insieme, una sensazione terribile. “Forza, Simba”, un lungo reportage dalla campagna elettorale per le primarie repubblicane al seguito del mitico John McCain.
Ho riproposto quel pezzo ogni volta che qualcuno mi ha chiesto un consiglio su come fare questo mestiere. Qualche volta mi è capitato di parlarne in una lezione di giornalismo o di comunicazione.
Leggete David Foster Wallace. Leggete quel reportage. Non siate luogocomunisti.
Dichiarai le mie intenzioni, in quell’estate del 2004. Volevo scrivere di politica. C’era un giovane Alessandro Giuli, credo avesse 28 o 29 anni. Era arrivato al Foglio da pochi mesi. Dritto come un fuso, elegante. Le cravatte a calzino. Era un fascista gentile, scriveva una colonna quotidiana dal titolo Palazzo. Volevo scrivere di quello.
Poi sono cresciuto e ci sono riuscito. A raccontare la politica, intendo. A raccontare il Palazzo. Sono anche riuscito a farmi assumere da due giornali e per due volte a dimettermi, ma questa è un’altra storia.
Il racconto della politica mi è rimasto sempre appiccato addosso.
C’era un tempo in cui mi divertivo anche a guardare i talk show. Ballarò con Giovanni Floris, L’Infedele con Gad Lerner.
Ora però mi pare tutto cambiato e non capisco se sono io cambiato, forse semplicemente dopo 17 anni a scrivere di politica mi sono annoiato. Penso però a quei giornalisti che di anni ne hanno 50 o 60 e non hanno mai smesso di scrivere di politica. Certo, magari avranno cambiato incarichi, ma per il resto hanno continuato a parlare di partiti, leader, leggi elettorali, leggi di bilancio, correnti, comizi, nuove forme di comunicazione.
Eppure non mi pare rimasto molto di quel mondo immaginifico in cui ho vissuto tutti i miei vent’anni, divertendomi a scrivere di politica. La politica è diventata seriosa ma non è seria, lo spazio per il racconto è stato bruciato dalle interviste inutili a chi non ha niente da dire, una selva di sottosegretari parlanti sui giornali che fanno cucù a pagina uno, due, tre, quattro, cinque. Non ci sono più ritratti, non ci sono più storie. Ci sono battute, dichiarazioni, commenti fugaci, tutto è intrattenimento. Il virgolettato che la spara più grossa vince. Sto generalizzando, forse anche ingenerosamente, ma mi pare così.
E tu che fai per migliorare le cose?, mi si potrebbe dire. La verità è che non lo so. Ho sempre cercato una risposta nella scrittura alle domande che mi assillano. Mi sono chiesto anche io, come un qualunque scribacchino con delle velleità, perché scrivo. La risposta più diretta e semplice è perché mi piace e mi fa stare bene. Per un tratto di tempo mi è parso anche di avere qualcosa da dire. Ora mi pare che la mia voce sia dispersa in un mare di considerazioni e che per farmi ascoltare dovrei iniziare a berciare. Invece mi sono sempre trovato bene con il silenzio dei miei pensieri e il naso che cola.
Sembra che ci sia bisogno di altro. Vanno di moda i fact-checker, che passano in rassegna le esternazioni di questo o quel politico e danno un voto alla veridicità delle affermazioni. Per carità, il giornalismo è il racconto di ciò che si avvicina alla verità, quindi in parte lo capisco. Ma mi è parso sempre un lavoro da automa scrivere senza tono, senza passo di danza, senza il naso che cola.
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