Vorrei chiudere rapidamente con oggi la questione delle elezioni regionali in Umbria e in Emilia-Romagna perché mi pare che ci siano cose molto più interessanti di cui occuparsi.
Dunque. Vorrei dire una cosa a proposito dei vincitori. Il centrosinistra ha vinto bene in entrambe le Regioni. Ha vinto di nuovo in Emilia-Romagna — dove il centrodestra non è competitivo — e ha riconquistato Umbria, dove la maggioranza di Palazzo Chigi governava da cinque anni la Regione.
Dentro la vittoria del centrosinistra però ci sono dinamiche che è bene analizzare. La principale mi pare che riguardi il M5S, che in Emilia-Romagna ha preso il 3,55 per cento (53.075 voti) e in Umbria 4,71 per cento (15.125). Esattamente la metà di quelli presi l’altra volta, cinque anni fa.
In Umbria la volta scorsa il M5S — che era già in coalizione con il Pd — prese il 7,41 per cento, pari a 30.953 voti.
In Emilia-Romagna, dove presentava una candidatura autonoma, i grillini conquistarono 102.595 preferenze, pari al 4,74 per cento.
Viene da chiedersi, ma forse se lo stanno chiedendo anche i dirigenti nazionali del Partito Democratico, quanto a lungo potrà reggere così il M5S. Il partito di Beppe Conte, ok, lo sappiamo, non è mai andato forte alle elezioni regionali. Anzi, possiamo serenamente dire che l’elettorato populista diserta questo tipo di competizioni.
Ma in ogni caso i Cinque Stelle perdono la metà dei propri voti. La cura Conte evidentemente non funziona, come peraltro aveva già dimostrato la vicenda ligure, dove è bastato un appello alla diserzione da parte di Beppe Grillo per far perdere le elezioni al centrosinistra.
Naturalmente, a parti invertite, il dilemma assillerebbe anche i dirigenti del Pd, che forse assumerebbero 3-4 posizioni diverse prima di decidere che cosa fare.
Ma il problema ha una certa consistenza, per il partito di Beppe Conte: se quella di centrosinistra è una coalizione che penalizza il M5S, perché starci ancora? Conte non pare avere l’ambizione di rifare la Margherita, diciamo così. Essendo sempre molto preso da sé stesso, è convinto di meritare ben altro trattamento. Il problema è che in politica il trattamento da ricevere lo decidono gli elettori. Il Pd è al momento la forza maggiore di opposizione. Se poi questo sia merito di Elly Schlein o demerito dei partiti e delle leadership che gravitano attorno al Pd avremo modo di capirlo.
Intanto però qualsiasi pretesa credibile di Conte sul centrosinistra rischia di sparire, anzi, forse è già scomparsa.
Resta da capire però quanto potranno permettersi i Cinque Stelle di restare in queste condizioni. Come ho già avuto modo di spiegare, l’unico M5S che funziona è quello che sta all’opposizione, finanche di sé stesso, che va da solo, contro tutti e contro tutto. Il M5S che ha funzionato per anni era quello della rivolta sociale, che si esprimeva con i Vaffanculo Day nelle piazze. I Cinque Stelle di oggi scontano, mi si perdonerà l’espressione desueta, l’imborghesimento delle loro classi dirigenti. Il problema è che il ruolo da agit-prop difficilmente può farlo Conte, il pochette-in-chief. Servirebbe un altro Beppe Grillo, ma forse — forse — non è più neanche il momento di leadership così incazzate. E qui sta il punto, per il M5S: indietro non si torna, le loro vittorie erano figlie di un’epoca e anche di un’epica che oggi non esistono più.
È un partito che al sud dovrebbe ancora avere un senso. Ma, essendo un movimento di opinione-come il Terzo Polo-, si trova in difficoltà nei momenti di crisi economica e di radicalizzazione del quadro politico.
Anche Fdi era scesa al 4% , ma ha lavorato con umiltà e coesione