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Il costo della democrazia
Al Foglio ho scritto tonnellate di articoli e pagine su politica e finanziamento pubblico, su politica e rapporto con il denaro (per chi è interessato si possono ritrovare facilmente, sul sito del Foglio).
Nel mio ultimo libro sul Pd, con molti interlocutori parlo di alcune scelte compiute sul tema, come quella di Enrico Letta di abolire i rimborsi elettorali e quella di partecipare al taglio del numero dei parlamentari.
Oggi sono in molti a prendersela con Piero Fassino per la sua sortita alla Camera (le critiche provengono anche dal suo partito). Non mi stupisce. Veniamo di anni e anni di sostanziosi attacchi alle istituzioni e non starò qui nuovamente a fare la genealogia dell’antipolitica. Mi limito a dire che la democrazia ha un costo, se vogliamo metterla in questi termini, e che è giusto difenderlo. Entrando nello specifico, però, vorrei riportare un passaggio della conversazione con Gianni Cuperlo contenuta nel libro, utile a capire un punto della questione:
“Aver abrogato ogni forma di finanziamento pubblico alla politica ha determinato una serie di conseguenze che non hanno influito soltanto sulla forma partito attuale (in città importanti siamo passati da qualche decina di funzionari, part-time o a tempo pieno, a non averne nemmeno uno). Una delle conseguenze di quel taglio è stato il ritorno a un accesso patrimoniale alle cariche elettive. Con i seggi che si acquistano. Quando ti propongono di entrare nella lista, in una posizione eleggibile, in un listino bloccato, l’accordo con il partito prevede che tu verserai un tot di migliaia di euro alla Direzione nazionale e un tot di decine di migliaia di euro alla federazione o al comitato regionale che ti eleggono. Ma non è una forma di ricatto, è una forma di sopravvivenza della vita politica. Sei tu che proponi te stesso e ti impegni a garantire quel sostentamento che il finanziamento pubblico ha tolto”.
I parlamentari, deputati e senatori, sono diventati un surrogato del finanziamento pubblico ai partiti. Nel Pd, per esempio, gli aspiranti parlamentari versano decine di migliaia di euro (una tantum) al momento della candidatura. Prendiamo il caso di un candidato del Pd in Lombardia: versa 15 mila euro al partito nazionale e 35 mila euro al partito regionale (ma ogni Regione decide per sé). Poi c’è la cifra che versano ogni mese al partito, una volta eletti: 1.500 euro al nazionale, più una quota per il regionale (per dire, per la Lombardia è 1.200 euro, di cui una quota poi viene distribuita ai livelli provinciali).
L’idea che la democrazia possa essere gratis o costare poco è pericolosa.
“Un reclutamento non plutocratico del personale politico, dei dirigenti e dei loro seguaci, è legato all’ovvio presupposto che dall’esercizio della politica provengano a questi politici dei redditi regolari e sicuri”, scrive Max Weber ne “La politica come professione”. La politica dunque “può essere esercitata o ‘a titolo onorifico’, e quindi da persone, come si è soliti dire, ‘indipendenti’, cioè benestanti, soprattutto in possesso di rendite; oppure il suo esercizio viene reso accessibile a persone prive di beni, che quindi debbono ricevere un compenso. Il politico che vive della politica può essere un puro ‘percettore di prebende’ o un ‘impiegato’ retribuito”.