Deformare l'invisibile
Oggi sono intervenuto al II congresso di Extrema Ratio, associazione culturale no-profit per un diritto penale liberale. Ho detto questo.
Oggi sono intervenuto al II congresso di Extrema Ratio, associazione culturale no-profit per un diritto penale liberale. Ho detto questo:
Fedi aveva vent’anni e il volto da bambino. Si è tolto la vita nel carcere di Sollicciano, a Firenze, lo scorso 3 luglio. Classe 2004, era arrivato in Italia minorenne dalla Tunisia ed era in carcere dal 2022.
In un reclamo giurisdizionale — presentato grazie a L’Altro Diritto, centro di documentazione dell’Università di Firenze — aveva messo nero su bianco le gravi condizioni del carcere fiorentino, pieno di muffa, topi e cimici.
E, naturalmente, sovraffollato come tutte le carceri italiane: al 30 settembre 2024, ultimo dato disponibile del ministero della Giustizia, nelle prigioni italiane c’erano 61.862 detenuti su una capienza di 51.196 (dato al quale però dovrebbe essere necessario togliere anche i posti resi inagibili).
L’Italia si sta dunque pericolosamente avvicinando ai numeri che nel gennaio 2013 la portarono alla condanna della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per trattamento inumano e degradante: 66.585 detenuti alla data del 13 aprile 2012 (con un tasso di sovraffollamento del 148 per cento).
Oltre ai 60 mila detenuti in carcere, al 15 ottobre 2024 c’erano 140.718 persone sottoposte a misure alternative, pene sostitutive, libertà vigilata, eccetera. Un numero enorme, cresciuto nel tempo, utile a capire quanto sia vasta l’area dell’esecuzione penale in Italia.
Nel suo reclamo, Fedi descriveva attraverso L’Altro Diritto le condizioni di vita — e poi di morte — del carcere di Sollicciano:
“Le pareti della cella, in particolare in quella vicino al letto, presentano macchie visibili di umidità e di muffa. Tali formazioni funginee sono causate dalle frequenti infiltrazioni d’acqua che, in caso di precipitazioni atmosferiche, aumentano considerevolmente. I detenuti in generale e il reclamante in particolare sono costretti a pulire essi stessi la muffa con la candeggina, ma il problema si presenta in maniera talmente endemica che da soli non riescono a risolverlo in maniera strutturale…”.
La presenza di infiltrazioni di acqua e di muffa era resa ancor più grave se si considera che l’impianto di riscaldamento spesso non è funzionante, anche a causa del costante sovraffollamento nel quale il carcere di Sollicciano versa.
“Anche quando l’impianto termo-idraulico è funzionante la cella è fredda. Il reclamante è, perciò, costretto a vivere in un ambiente insalubre freddo ed umido”.
L’acqua calda non è mai presente in cella, spiegava il giovane detenuto:
“Di conseguenza, il reclamante è costretto a lavarsi giornalmente con acqua gelata e a lavare i piatti — peraltro nel medesimo lavandino adibito all’igiene personale — nelle medesime condizioni. Egli, in ragione della costante umidità e della mancanza di aereazione in cella, è costretto a tenere la finestrina del bagno costantemente aperta col risultato che sia l’igiene personale che delle stoviglie deve essere effettuata con l’acqua gelida”.
Nella sezione e nella cella c’erano i topi:
“Di recente, il reclamante è riuscito a catturarne uno, che ha poi mostrato agli agenti e al personale medico. In data 6.11.2023 egli, tramite accesso diretto al colloquio psicologico-clinico, si è presentato con una bottiglia all’interno della quale si trovava un ratto catturato nella cella”.
Oltre ai topi, Fedi lamentava “la presenza di cimici che in passato lo hanno morso procurandogli delle lesioni. Queste ultime si annidano, in generale in tutto il carcere, nei materassi, nei tessuti, dentro le crepe delle pareti e negli anfratti degli arredi e provocano lesioni cutanee da morso, chiazze rosse sulla pelle, prurito e gonfiore. È capitato che vedesse le cimici camminare sul soffitto, anche al reparto giudiziario, e che si dovesse svegliare anche in piena notte per girare il materasso — peraltro di spugna e fine — e igienizzare tutto…”.
La cucina, dove Fedi lavorava, “presenta gravi carenze igieniche e strutturali: è infestata dai piccioni e dai topi. Questi ultimi si nascondono sotto i mobili e gli stipetti della cucina e i lavoranti trovano spesso tracce di cibo rosicchiato dagli stessi…”.
Quello che sto cercando di restituire qui, con poche parole come strumenti e grazie purtroppo alla storia di Fedi Ben Sassi, una delle 76 persone che si sono suicidate in carcere nel 2024 in Italia, è il puzzo del penitenziario.
Un puzzo che naturalmente nessuno vuole sentire. Anzi, se possibile, nessuno neanche vuole immaginare che esista. Perché il penitenziario è bene che sia lontano. Fisicamente lontano.
Come Sollicciano. Io non so se siete mai stati a Sollicciano o se sapete dov’è. Un tempo a Firenze a svolgere le funzioni carcerarie - dal 1883 al 1985 - c’era un ex monastero quattrocentesco nel complesso delle Murate, nel centro della città, dove oggi ci sono case popolari e anche un caffè molto frequentato.
Sollicciano esiste dal 1983. È in una periferia di Firenze, zona sud ovest della città, al confine con il Comune di Scandicci. Le vie intorno si chiamano “Via del Pantano”, “Via Bassa”, “Via del Chiuso”, “Viuzzo del Chiuso”. Nelle vicinanze c’è il fosso del Padiglione.
Vi lascio immaginare come sia il posto. Come una qualsiasi periferia, in realtà. Ma una periferia in cui ci si impicca con un lenzuolo.
Io penso che il giornalismo oggi, un giornalismo che voglia fare il proprio mestiere, debba raccontare esattamente questo. La storia di Fedi, delle madri detenute e di tutte quelle persone che in carcere non ci devono stare perché non ci possono stare.
Che cosa ci faceva in prigione Alvaro Fabrizio Nuñez Sanchez, detenuto di 31 anni, affetto da gravi patologie psichiatriche, suicidatosi nel carcere di Lorusso e Cutugno, a Torino, lo scorso 24 marzo?
Risposta: assolutamente niente.
Non era il posto per lui, non doveva stare lì. Lo aveva stabilito il pm che aveva disposto il trasferimento in una Rems, cioè una Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza; le Rems sono luoghi che ospitano le persone dichiarate incapaci (o semi incapaci) di intendere e volere al momento della commissione del reato, ma ritenute socialmente pericolose.
Era proprio il caso di Nuñez, gravemente malato, che aveva tentato di uccidere il padre accoltellandolo nel sonno.
Il giovane ha atteso lunghi mesi un trasferimento che non è mai arrivato, perché non c’era posto in una delle sole due Rems in Piemonte.
Ora, è vero, come spiega sempre il professor Emilio Santoro, che ogni suicidio fa storia a sé e che capire fino in fondo le ragioni di un suicidio è impossibile, perché le cause possono essere molte.
Possiamo però dire che se in una città di 60 mila abitanti ci fossero più di 70 suicidi in un anno forse saremmo scioccati?
Il primo studioso che ha ipotizzato che si potesse studiare l’andamento dei suicidi come un fatto sociale fu Émile Durkheim in un suo famoso studio di fine Ottocento.
Il sociologo francese propose 4 tipologie di suicidio, tra le quali particolare rilevanza per capire il suicidio in carcere ha il suicidio anomico, cioè il suicidio dovuto al disorientamento di chi si trova a vivere in una società senza ordine che mette in discussione i principi considerati scontati.
“L’anomia - mi ha detto una volta il professor Santoro - è infatti la situazione tipica delle carceri italiane che annichiliscono e infantilizzano la personalità dei detenuti, privi di diritti”.
Non sono qui oggi a Bologna, al congresso di Extrema Ratio, su gentile invito del presidente Francesco D’Errico, che insieme ai suoi colleghi svolge un lavoro eccellente in difesa della cultura liberale del diritto, per parlare della gogna, del pubblico ludibrio riservato agli indagati già condannati dai media, dell’uso politico e strumentale della giustizia.
Temi a me cari avendo lavorato al Foglio per tanto tempo. Sono qui per parlare del puzzo del penitenziario, appunto.
Come giornalista, mi occupo di carcere da diversi anni. Da prima del Covid, un evento che considero spartiacque. Ho l’impressione che esista un prima e un dopo il Covid.
Ecco, all’inizio della pandemia ho incrementato la mia attenzione sul carcere.
In quei mesi, quando Beppe Conte faceva capolino, sempre alle 20:20 della sera, per una dichiarazione televisiva da pater familias degli italiani, abbiamo scoperto che non era il tempo a mancarci - come pensavamo con una certa ansia giusto qualche settimana prima - ma lo spazio.
Anche io come tutti ero chiuso in casa; nel mio caso, ero chiuso in casa a scrivere e a leggere.
Fra le mie letture e visioni quotidiane - non nel senso di allucinazioni, è che questi signori erano e sono sempre in tv - c’erano Marco Travaglio e Nicola Gratteri.
Ognuno ha i suoi problemi, me ne rendo conto.
“Si è più sicuri in carcere che fuori”, diceva Gratteri, già ex aspirante ministro della Giustizia. “Si ha meno probabilità di infettarsi in carcere che non fuori”, diceva a Otto e Mezzo il capo della procura di Catanzaro, spiegando che su 62 mila detenuti c’erano “solo 50 casi” di contagi per coronavirus, lanciandosi dunque in una discutibile statistica carceraria. E io ero lì che mi chiedevo: davvero paragoniamo senza distinzioni la popolazione detenuta con quella a piede libero?
Dello stesso avviso era Travaglio, che sul suo giornale vergava articoli e commenti, calcoli alla mano, su quanto i ristretti vivessero più al sicuro rispetto alla società dei liberi.
Ora, sono passati quasi cinque anni ma ancora c’è chi è convinto - e Travaglio è uno di questi - che in carcere si sta meglio che fuori.
Cultura della gogna e carcere sono naturalmente legate.
Perché la prima può condurre nel secondo oppure può rovinarti la vita anche in assenza di carcere. Al punto tale che poi la stessa vita diventa un carcere.
Da appassionato del professionismo della politica e da antipatizzante di tutto ciò che è antipolitica, penso che basterebbe chiederlo a tutti quegli amministratori pubblici la cui vita è stata distrutta da inchieste finite nel nulla.
Io penso però che sia necessario promuovere, insieme al dibattito delle idee sulla giustizia, sul garantismo, sul diritto liberale, insieme ai convegni e alle tavole rotonde, ecco io penso che sia necessario raccontare che cos’è la prigione, con i suoi registri linguistici, il suo lessico, il suo percorso di infantilizzazione fatto di domandine e spesine.
Francesco D’Errico nell’assegnarmi il titolo del mio intervento - “Deformare l’invisibile: il carcere nella lente dei media” - mi dà la possibilità di ragionare con voi di una questione che ritengo centrale per il dibattito pubblico e che in realtà non riguarda soltanto i media e il carcere ma i media in generale.
Un filosofo, Christoph Türcke, anni fa pubblicò un libro di notevole interesse dal titolo “La società eccitata. Filosofia della sensazione”. Il libro descrive lo slittamento di senso della parola sensazione.
Intesa inizialmente come ciò che si percepisce - la sensazione come percezione appunto - e poi diventata come ciò che fa sensazione.
Per cui ciò che si percepisce è soltanto ciò che fa sensazione.
Questo vale per la politica e la comunicazione della politica. Ma anche per il carcere e il racconto del carcere.
Quando i giornali ne parlano - non tutti, non con lo spazio che meriterebbero le singole storie dei detenuti e l’analisi di un problema che è sovrastrutturale e, come direbbe Nichi Vendola, gigantografico - usano la parola “emergenza” per descrivere il carcere.
L’emergenza carcere, l’emergenza suicidi.
È come quando dopo due-tre anni di covid continuavamo a chiamarla l’emergenza Covid.
Io penso che sia sbagliato continuare a chiamarla emergenza, perché quello che doveva emergere è già emerso.
Emergono i numeri, come quelli che vi ho citato all’inizio, i dati. Emergono le dichiarazioni un po’ svagate del ministro della Giustizia Carlo Nordio, che in ogni suo intervento ama ricordarci, con la mano in tasca, che ha fatto per 40 anni il magistrato.
Una affermazione civettuola che io ritengo il ministro ripeta soltanto per autocompiacimento e che lascia intendere però, nelle parole ma anche purtroppo nei fatti, che Nordio dopo 40 anni di onorato servizio sia venuto a godersi la sua meritata pensione come ministro della Giustizia. Quasi che diventare ministro sia il regalo che ti viene fatto a fine carriera, insieme a una scatola di sigari.
Il fatto che qualcosa sia emerso nella sua brutalità, nella sua ferocia e anche nella meschinità della gente, quella che non vede l’ora di buttare via la chiave, non significa tuttavia che il lavoro giornalistico in questo caso sia finito.
In realtà il lavoro giornalistico non è neanche iniziato. Faccio questo mestiere da vent’anni, che adesso accompagno anche a un percorso accademico di ricerca, e vi assicuro che non solo come giornalista ma anche come lettore di giornali avverto un certo malessere.
Perché a parte qualche lodevole iniziativa, il carcere nel racconto dei media è come Sollicciano, sta vicino al viuzzo del Chiuso.
Perché il penitenziario puzza, è pieno di gente da cui vorremo stare lontani, ci sono quelli che “se la sono cercata”.
Qualcuno però sta in carcere anche perché i media, a proposito di deformazione dell’invisibile, cercano ciò che appunto fa sensazione, andando persino oltre la cultura del sospetto. Chi se l’è cercata magari non se la cercava affatto e sui giornali c’è finito con intercettazioni penalmente non rilevanti, mostrificato dalla carcerazione preventiva che regala prime pagine e grossi titoli, salvo guadagnarsi un trafiletto quando il caso finisce nel nulla.
A proposito di ciò che “fa sensazione”, il caso di Beniamino Zuncheddu è purtroppo interessante da analizzare. Lasciamo stare per un momento il fatto che già non se ne parla più, e forse di cose ce ne sarebbero da dire. Il caso Zuncheddu è stato raccontato nella sua enormità - 33 anni in carcere da innocente non sono uno scherzo, secondo me non è uno scherzo neanche una settimana in carcere ma vabbè - come si racconta ciò che fa sensazione. Perché effettivamente il caso Zuncheddu fa sensazione.
Zuncheddu è sopravvissuto e con lui possiamo parlarci.
Con il giovane Fedi invece non possiamo più parlarci. Non ci può parlare la madre che in quelle drammatiche ore chiedeva notizie alla mediatrice culturale di Sollicciano, ricevendo in cambio terribili informazioni.
Ora, io mi occupo di politica, dalla politica interna agli Stati Uniti (all’analisi della comunicazione politica di un certo candidato alle elezioni presidenziali del 5 novembre, non vi dico chi, ho dedicato il mio prossimo libro). Ma se dirigessi un giornale, e per fortuna non lo dirigo perché durerei poche ore, cercherei di ribaltare quella che viene definita la “gerarchia delle notizie”.
Trovo insopportabile il chiacchiericcio giornalistico sulla politica.
Le interviste al sottosegretario di turno che non ha niente da dire. I retroscena che servono a compiacere le fonte o le fonti che hanno ispirato un racconto magari falsato, magari ingigantito, magari manipolato.
La morte di Fedi va raccontata. Va raccontata in prima pagina.
Anche se non gliene frega nulla a nessuno o comunque a pochi.
Ma va raccontata la vita, non per forza la morte, di chi è ancora dentro il carcere. Zuncheddu è sopravvissuto, Fedi non c’è più.
E dentro c’è ancora un sacco di gente che merita di essere ascoltata.
Perché la dignità che manca nelle carceri e che è sempre mancata deve essere portata in via del Pantano, dove in troppi si rifiutano di vedere che cosa succede.
Il presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze, il dottor Marcello Bortolato, ama sempre ricordare che cosa succede in Francia, dove l’Ècole nationale de la magistrature prevede da anni degli stage penitenziari obbligatori per coloro che vogliono fare i magistrati. È successo anche in Italia, quando quando Presidente della Scuola Superiore della Magistratura era il professor Valerio Onida e i giovani magistrati in tirocinio erano tenuti a frequentare degli stage penitenziari addirittura per 15 giorni. Poi prevedibilmente ci furono delle polemiche e non se ne fece più niente.
Ecco, e qui chiudo, uno stage di qualche giorno in un istituto penitenziario forse potrebbero farlo anche tutti quei giornalisti che pensano che in carcere si stia meglio che fuori.
Forse di cazzate ne leggeremmo di meno.